Non è facile parlare del tema delle foibe senza venire additati come riduzionisti o sensazionalisti, soprattutto perché chi legge solitamente tende a osservare il problema (questo
come molti altri) attraverso il filtro della propria ideologia politica,
con il rischio di scadere in revisionismi e inesattezze storiche.
Del resto è ostico cercare di inquadrare un fenomeno
che non ha una precisa collocazione, dato che ha interessato regioni diverse,
tempi diversi, e cause diverse fra loro. Comunemente per foibe s’intendono gli eccidi ai danni di militari e civili italiani autoctoni della Venezia Giulia, del Quarnaro e
della Dalmazia, avvenuti
durante e subito
dopo la seconda guerra mondiale
da parte dei partigiani jugoslavi e dell’OZNA. Secondo alcuni
storici, la repressione operata
da queste forze armate si può considerare una sorta di dimostrazione di forza del nuovo regime simil-stalinista in jugoslavia, istituito dal leader politico
Tito. Si escludono
quindi, altri atti di guerriglia compiuti sin dal ’42 da italiani
e popolazioni slave.
Detto questo, il primo aspetto
da considerare è il numero delle vittime: la stima più attendibile è quella portata
avanti dagli storici Raoul
Pupo e Roberto Spazzali, stima che si aggira intorno alle 11.000 vittime (considerando anche i deportati
e i morti durante la prigionia). Un numero consistente, che però, come ha fatto notare lo storico Alessandro Barbero,
rapportato al numero di persone che ogni giorno perdevano
la vita in quegli anni (quelli della seconda guerra
mondiale, per intenderci -ca 68 milioni-), ci dà un ridimensionamento di quello che è stato l’eccidio delle foibe.
Il fenomeno,
all’inizio poco considerato, ha goduto di una crescente risonanza nel corso degli anni, soprattutto da quando la politica se n’è cominciata a interessare.
La visione dello storico, che non dovrebbe
essere contaminata dalla propria
ideologia, ha sempre contestato a una parte della destra
e della sinistra
l’uso che si è fatto di un avvenimento come questo. Se i cosiddetti
riduzionisti o negazionisti, infatti, hanno cercato di minimizzare il fenomeno o di negarlo in toto (quest’ultimo atteggiamento specialmente nei primi anni del dopoguerra), i sensazionalisti
hanno strumentalizzato il ricordo
della tragedia. Fra quest’ultimi c’è chi ha avanzato la poco probabile (e anzi, storicamente contestata, dato che non sono emersi sufficienti dati per decretarlo) teoria della “pulizia etnica”,
e chi ha inneggiato al pericolo comunista, confondendo (volutamente o meno) il movimento di liberazione partigiana con il commando
che ha operato in quei tempi e in quei luoghi.
Questo al fine di screditare completamente il movimento della resistenza (di cui è indubbia la condivisone di valori come libertà e democrazia), arrivando quasi a sottendere, attraverso una narrazione patetica
e vittimista, la giustificazione dei crimini commessi dal regime fascista.
C’è poi invece, fra i riduzionisti, chi ha tentato di omettere che fra le vittime fossero
presenti dei civili, che poco o nulla avevano a che fare con il regime, o chi, come già accennato, ha negato o minimizzato l’episodio, sminuendo il computo
totale delle vittime. Questo meccanismo
fu utilizzato soprattutto inizialmente per evitare che la vicenda diventasse
di dominio pubblico, e che andasse a minare la politica antifascista che nel secondo dopoguerra era necessario tutelare il più possibile.
Se dovessimo proclamare una giornata del ricordo per ogni strage (e.g. Massacro di Nanchino). avvenuta durante la guerra, avremmo una celebrazione per ogni giorno dell'anno.
Emanuele Paoletta – 5A Liceo Classico
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